Saranno gli ultimi presunti casi di cannibalismo o la profezia Maya, ma sta di fatto che ormai le produzioni letterarie dedicate all’Apocalisse in tutte le sue forme si moltiplicano giorno dopo giorno. Un discorso è, però, quando la fine del mondo viene raccontata in maniera adrenalinica e avventurosa, creando nel lettore una vera e palpabile sensazione di angoscia, una cosa è invece, come nel caso di L’ultima profezia di Liz Jensen, quando l’Apocalisse è un inutile sciorinare di dati, teorie scientifiche e fanatismi religiosi.
Bethany Krall è una ragazza disturbata rinchiusa in un ospedale psichiatrico in seguito all’omicidio della madre. A seguire il suo caso, dopo l’allontanamento della precedente psicologa, viene chiamata Gabrielle Fox, intenzionata a ricominciare dopo un brutto incidente che l’ha costretta sulla sedia a rotelle. Gabrielle presto scoprirà che Bethany non è solo una ragazza malata, ma è in grado di prevedere terribili sciagure che sembrano far parte di un piano più ampio che sta trascinando il mondo verso la fine. Il romanzo della Jensen è un niente di oltre quattrocento pagine: non c’è pathos, non c’è storia, non ci sono le emozioni che un libro del genere dovrebbe trasmettere. L’autrice sembra scrivere essenzialmente per soddisfare il suo ego, presumibilmente smisurato, presentandoci personaggi che si finisce per disprezzare: la squilibrata Bethany Krall, più simile a una ragazzina isterica, dispettosa e antipatica che si vorrebbe volentieri pestare a sangue, che a una sensitiva in grado di prevedere i disastri; Gabrielle Fox, insopportabile donnina che si piange addosso, paranoica e non immune a una buona dose di stupidità; Frazen Melville, scienziato sfigato che si innamora di Gabrielle ma che finisce per causare più problemi di quanti ce ne sono già.
E l’Apocalisse? Non ce n’è traccia, se non in pagine di vero delirio scientifico, forse copiate da Wikipedia, in cui si presentano le possibili conseguenze del continuo sfruttamento ambientale da parte dell’uomo. Se l’intento della Jensen era quello di costruire un thriller psicologico, il risultato è pessimo, perché superare le prime cinquanta pagine è una sfida da temerari; se invece era quello di raccontare una possibile fine del mondo, il risultato è quello di far sperare i lettori che succeda davvero, così da spazzare via lei e i suoi noiosissimi personaggi.
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