Tre anni fa ci lasciava George A. Romero, il padre degli zombie, colui che ebbe per primo l’intuizione di cambiarne
la tradizione letteraria e cinematografica, trasformandoli in mostri cannibali,
affamati di carne umana.
Da quell’ormai lontanissimo 1967, quando il passaggio
di una cometa sulla Terra provocava la resurrezione dei morti, il cinema dell’orrore
non è più stato lo stesso, tanto forte fu l’impatto di La notte dei morti
viventi, film girato quasi per gioco e diventato, presto, un cult immortale
e amatissimo.
La minaccia dei morti viventi è diventata in poco tempo uno
stereotipo del cinema horror mondiale, uno dei nuovi pericoli di estinzione dell’umanità
che autori, registi e produttori hanno cavalcato senza tregua per tantissimi
anni, provando innovazioni e trasformazioni, ma tornando, alla fine, sempre al
punto di partenza.
La tradizione romeriana, infatti, ha sempre tenuto duro,
combattendo contro ogni tipo di sconvolgimento, dagli infetti agli zombie
corridori e proponendosi come unico faro in mezzo alla tempesta.
E lo stesso
George ha tenuto a sottolineare quanto la sua visione fosse quella migliore,
quella più fedele alle radici haitiane della mitologia zombesca, girando ben
sei film dedicati ai morti viventi e riuscendo nell’ardua impresa di rileggere
il tema senza mai essere ripetitivo o noioso.
Il segreto, probabilmente, era la
sua straordinaria capacità di riportare sul grande schermo pregi e difetti dell’essere
umano, trasformando l’invasione degli zombie in un processo sociale quasi
inevitabile e irreversibile.
I suoi film non sono mai stati banali, qualcuno,
certo, è meno riuscito di un altro, ma nessuno potrebbe mai dire che non siano
pieni di senso cinematografico, talmente perfetti e visivamente reali da far
impallidire ogni specialista di effetti speciali.
Già in La notte dei morti
viventi, lo stile, se vogliamo grezzo, dà un taglio quasi documentaristico
al film, privo di tutti quegli elementi che avevano fatto e stavano ancora
facendo in quegli anni, la fortuna degli horror: «niente nebbioline da notti
gotiche in cimiteri di cartapesta» scrive Danilo Arona nel volume L’alba
degli zombie, ma location autentiche, personaggi reali e comuni.
Tutto molto
banale, potrebbe obiettare qualcuno, senza rendersi conto di quanto, invece,
Romero avesse rotto tutti i tabù e scardinato i canoni dell’epoca, offrendo
quello che oggi viene considerato un vero e proprio manifesto cinematografico.
Senza
tenere in considerazione il momento storico in cui uscì La notte dei morti
viventi, ovvero il 1967, in piena contestazione, con la guerra del Vietnam
che stava dilaniando il tessuto sociale americano, chiamato, sempre dal Maestro
Danilo Arona, “cannibalismo culturale”.
Nessuno, negli anni, è riuscito a
raggiungere la potenza realistica e sociale degli horror zombeschi di Romero,
forse perché gli anni sono passati e molte cose si sono dimenticate, oppure
perché si è preferito seguire la strada più facile della paura.
Fatto sta che lo
spirito e il senso di inadeguatezza e impreparazione tramandato da capolavori
come Zombie o Il giorno degli zombie sono stati traditi nel nome
di un senso di divertissement che ha relegato molta parte del cinema
horror moderno a futile e sterile intrattenimento.
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