martedì 26 luglio 2011

Stephen King e il Cinema: Gli anni '90

Il viaggio all’interno del cinema ispirato alle opere del Maestro del Brivido Stephen King riprende dal 1990 con il mediocre film I Delitti del Gatto Nero, diretto da John Harrison e composto da tre episodi ispirati a racconti di Arthur Conan  Doyle (Lotto 249), Stephen King appunto (Il Gatto Nero) e Michael McDowell (La promessa degli amanti). A raccontare le tre storie dell’orrore è il piccolo Tommy, un ragazzino incatenato nella dispensa di una donna che vorrebbe cucinarlo…
Unica menzione, la presenza dei giovanissimi Christian Slater e Steve Buscemi.

Nello stesso anno arriva nei cinema italiani La creatura del cimitero tratto dal racconto Secondo turno di notte, compreso nel volume A Volte Ritornano. Diretto da Ralph S. Singleton in maniera scialba e noiosa, il film racconta le vicende di un gruppo di lavoratori notturni alle prese con una spaventosa creatura famelica che si nasconde in alcuni vecchi cunicoli. Considerata, giustamente, da Stephen King uno dei peggiori adattamenti, la pellicola è un susseguirsi di scene splatter in cui la trama perde consistenza man mano che i protagonisti finiscono fagocitati dal mostro.

Il 1990 è soprattutto l’anno di Misery non deve morire, splendido adattamento di Rob Reiner dell’omonimo romanzo di King, ancora oggi considerato uno dei suoi migliori lavori. Incentrato sulle drammatiche vicende dello scrittore di successo Paul Sheldon (James Caan) che, vittima di un incidente stradale in mezzo alle montagne, si ritrova prigioniero di una donna che dice di essere “la sua ammiratrice numero uno”, la pellicola è uno splendido thriller mozzafiato che ha fatto registrare uno straordinario successo al botteghino. Costato 20 milioni di dollari il film ne incassò oltre 61; la protagonista femminile (una inarrivabile Kathy Bates) vinse l’Oscar come migliore attrice, mentre il personaggio dell’ex infermiera psicopatica da lei interpretato, fu nominato dall’American Film Institute 17mo peggior criminale della storia del cinema. Particolare menzione anche per le splendide musiche di Marc Shaiman.

Il 1992 è l’anno di uno dei film più controversi tratto dai romanzi di Stephen King: Il Tagliaerbe di Brett Leonard. Molto liberamente tratto dal racconto The Lawnmower Man (anche questo nella raccolta A volte ritornano), la pellicola ha avuto l’unico pregio di portare sugli schermi cinematografici uno degli argomenti più importanti di quegli anni, la realtà virtuale. Un giovane Pierce Brosnan interpreta il dottor Lawrence Angelo, uno scienziato che decide di usare un povero ragazzo ritardato per i suoi esperimenti, senza però sapere a cosa sta andando incontro…
Il film è passato alla storia più per la causa che Stephen King ha intentato contro gli autori per essere rimosso dai credits, che per le sue qualità.

Un anno dopo, George A. Romero torna a dirigere un film tratto da un’opera di Stephen King portando sugli schermi La metà oscura, ottimo thriller con alcune puntate nell’horror in cui il protagonista è uno scrittore (Timothy Hutton) che dopo aver scritto per anni sotto pseudonimo, decide di cominciare una nuova carriera col suo vero nome, senza però accertarsi prima che il suo alter ego sia d’accordo. Parabola sullo sdoppiamento della personalità e ispirato dalla stessa esperienza letteraria di Stephen King che per anni pubblicò libri sotto lo pseudonimo di Richard Bachman, il film risulta essere un gradevole thriller impreziosito da un finale degno del miglior Romero.

Nello stesso anno viene portato sugli schermi Cose Preziose, diretto da Fraser Clarke Heston (figlio di Charlton) e arricchito dalla presenza di due star come Max Von Sydow ed Ed Harris. La storia è quella di un vecchio antiquario (Von Sydow) che apre un negozio in un piccolo paesino della provincia americana (la Castle Rock di Stand By me – Ricordo di un’estate) vendendo ogni genere di rarità: nel suo negozio ognuno sembra trovare ciò che ha cercato da sempre, ma a un prezzo carissimo.
Horror dalle potenzialità molto elevate, sprecato probabilmente in malo modo, a causa di una regia sciatta e di una sceneggiatura con molti vuoti. Ottime le interpretazioni di Von Sydow e di Harris che non sono comunque bastati a evitare che Cose Preziose rimanga un horror di serie B.

Il 1994 è un altro anno importante per i film tratti dai romanzi di Stephen King, grazie soprattutto a Le ali della libertà, pellicola diretta da Frank Darabont (già sceneggiatore di La Mosca 2 e Frankenstein di Mary Shelley) e ispirato al racconto Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank compreso nella raccolta Stagioni Diverse (la stessa di Stand By Me). Magistralmente interpretato da Tim Robbins nei panni di Andy Dufresne, vicedirettore di banca ingiustamente condannato per l’omicidio della moglie fedifraga e dell’amante, e da Morgan Freeman in quelli del vecchio e disilluso Ellis Boyd Redding detto semplicemente “Red”, il film è ormai considerato una perla nella produzione ispirata al Re del Brivido, tanto da aver ricevuto ben 7 nominations agli Oscar del 1995. Dramma carcerario incentrato sul tema del riscatto (le storie dei due protagonisti prima, durante e dopo il carcere sono in questo senso esemplari), Le ali della libertà è anche e soprattutto un film sull’amicizia, quella vera, nata tra due persone apparentemente diverse, ma che condividendo la stessa condizione capiscono improvvisamente quanto sia forte il legame che li unisce.

Il 1995 vede arrivare nelle sale due film molto diversi tra di loro: The Mangler – La Macchina Infernale e il delicato L’ultima eclissi. Il primo è tratto dal racconto Il Compressore (ancora una volta compreso nella raccolta A volte ritornano) ed è stato diretto da Tobe Hooper e risulta essere un mediocre horror splatter di serie B che vede protagonista una gigantesca stiratrice che inghiotte gli esseri umani. Neppure la presenza di Ted Levin e, soprattutto del Robert Englund di Nightmare, riesce a dargli quella spinta in più.
Discorso molto diverso, invece, per L’ultima eclissi di Taylor Hackford, tratto dal romanzo Dolores Claiborne. La Kathy Bates di Misery e Jennifer Jason Leigh sono le protagoniste di un delicato dramma familiare in cui la prima deve difendersi dalle accuse di omicidio della donna presso cui prestava servizio e nello stesso tempo cercare di riallacciare un rapporto fino ad allora travagliato con l’unica figlia. Particolarmente suggestivo grazie soprattutto all’ambientazione su un’isola, tra nebbie e misteri, il film è un perfetto ritratto del rapporto madre-figlia, una pellicola dalla parte delle donne in un continuo accavallarsi tra presente e passato, ma che riesce anche ad andare oltre, trasformandosi spesso in un godibile giallo alla Hitchcock in cui i colpi di scena non mancano. Splendida ancora una volta l’interpretazione della Bates, ma questa volta l’unico premio l’ha vinto Ellen Muth come miglior attrice non protagonista (Selena da bambina) al Tokyo International Film Festival.

A dimostrazione di come la raccolta A volte ritornano sia stata una delle più saccheggiate, ecco nel 1996 arrivare un altro adattamento del racconto che dà il titolo all’opera, A volte ritornano…ancora, un autentico filmaccio diretto dall’esordiente Adam Grossman che viene ricordato esclusivamente per la presenza di una giovanissima Hilary Swank. Nello stesso anno esce al cinema L’occhio del male, tratto dal romanzo omonimo di King, in cui il protagonista è William Halleck (Robert John Burke), un corpulento omaccione che dopo avere investito e ucciso una zingara, rimane vittima di una maledizione scagliatagli contro da un altro zingaro ultracentenario. Da quel momento in poi William comincerà a dimagrire rendendosi presto conto che non si tratta soltanto di una salutare dieta. Horror poco conosciuto dal pubblico e impreziosito dalla presenza di Joe Mantegna, il film si rivela essere un apprezzabile conto alla rovescia verso una resa dei conti finale che non lascerà delusi.

Nel 1997 esce The Night Flier, tratto dal racconto Il volatore notturno compreso nella raccolta Incubi & Deliri. Un horror in cui il protagonista è un cronista assetato di scoop che si mette a caccia di un vampiro che la notte sorvola i cieli degli Stati Uniti a bordo di un Cessna Skymaster alla ricerca di sangue fresco. Mediocre filmetto di denuncia del sensazionalismo giornalistico.

Un anno più tardi l’allora promettente regista Bryan Singer (già autore di I Soliti Sospetti) porta al cinema un altro dei racconti di Stephen King compresi nella raccolta Stagioni Diverse, vale a dire Un ragazzo sveglio. Il film è L’allievo con Brad Renfro nei panni di uno studente che grazie a una meticolosa ricerca per la scuola scopre la vera identità di un anziano vicino di casa interpretato da Ian McKellen che si rivela essere un gerarca nazista sfuggito al servizio segreto israeliano. Tra i due si instaura immediatamente un rapporto quasi simbiotico, tanto da fare del ragazzo un allievo appunto. Sceneggiato dall’esordiente Brandon Boyce, il film è un’ottima apologia sul potere e sulla fascinazione del Male, con uno strepitoso McKellen al di sopra di tutti, in particolare nella scena della vestizione-marcia del ragazzo in cui la sua perfidia geniale raggiunge il picco massimo. Brad Renfro ha vinto il premio come miglior attore protagonista al Tokyo International Film Festival, mentre il film vinse 2 Saturn Awards come miglior film e per il miglior attore non protagonista (Ian McKellen).

A fine secolo il cinema continua ancora a saccheggiare la produzione letteraria di Stephen King, “inventandosi” addirittura dei sequel come nel caso di Carrie 2 – La furia di Katt Shea, ideale seguito del primo fortunato film firmato da Brian De Palma, ma con cui ha poco da spartire se non per il ritorno, dopo oltre vent’anni, di Amy Irving nei panni dell’unica superstite alla vendetta della prima Carrie, Susan Snell. La ragazza adesso è diventata insegnante e presto avrà a che fare con una ragazza molto simile alla sua vecchia amica…
Horror splatter privo di ogni utilità, il film risulta essere un’accozzaglia triste di riferimenti ad altre pellicole del genere (vedi Scream) con personaggi davvero inconsistenti.

Per fortuna non fu questo l’ultimo film del ventesimo secolo tratto dai romanzi di Stephen King, grazie a Frank Darabont (già regista di Le ali della libertà) che decise di confrontarsi con uno dei libri più interessanti dell’autore americano, Il miglio verde. Come il precedente film, anche in questo caso si tratta di un dramma carcerario, con protagonista Paul Edgecombe (Tom Hanks), capo degli addetti alla sicurezza del braccio della morte del carcere di Cold Mountain che ben presto si troverà ad avere a che fare con un condannato del tutto particolare, il gigante nero John Coffey, un omaccione accusato di aver barbaramente ucciso due bambine, ma che in realtà nasconde dentro di sé dei poteri soprannaturali. Candidato a ben 4 Oscar (senza portarne a casa nessuno, però), il film di Darabont è un ideale continuo del precedente Le ali della libertà, ma mentre in quest’ultimo l’analisi si soffermava soprattutto sui personaggi e sui loro rapporti (l’amicizia tra Andy e Red), qui il regista sembra completare la sua condanna verso il sistema carcerario calcando maggiormente la mano sulla inutilità della pena di morte (esemplare la scelta di mostrare le esecuzioni sulla sedia elettrica) e sulla possibilità di grossolani errori giudiziari che in questo caso condannano a morte un autentico Dio in terra, in una sorta di nuova via crucis che vede questo gigante di colore dotato di straordinari poteri guaritori trattato come uno dei peggiori criminali. Ma John Coffey è molto diverso da Andy Dufresne: mentre questi, infatti, sembrava aver pianificato tutto negli anni con una incredibile capacità di costanza e sicurezza di intenti, Coffey sembra invece conoscere già il suo destino. Al contrario di Dufresne non combatte per riavere la libertà ingiustamente toltagli, ma accetta con “cristiana rassegnazione” ciò che lo aspetta, in una sorta di catarsi per tutto il genere umano.

Ottimamente interpretato da tutto il cast, con un intenso Tom Hanks su tutti, Il miglio verde pecca soltanto sul piano registico (come peraltro anche Le ali della libertà), per cui è la storia che prende il sopravvento e non come questa viene raccontata. Una scelta forse volontaria da parte di Darabont che comunque confeziona una pellicola coi fiocchi, dalla durata un po’ eccessiva (oltre 3 ore) ma che regala grandi emozioni allo spettatore.

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