Raccontatemi qualcosa di voi. Chi sono Angelica Tintori e Franco Pezzini?
A.: Cominciamo bene… Mi sono innamorata del cinema a 14 anni, guarda caso il primo anno di liceo classico… E’ stato anche il momento in cui ho cominciato a leggere (intendo dire libri nel senso classico del termine e non Topolino, Diabolik, Asterix e la mitica Mafalda di Quino dei quali ero già famelica da età poco più che infantile). Qualche anno più avanti, l’amore per il cinema è stato affiancato da quello per la serialità televisiva americana, ma non soltanto. Poi i viaggi: immaginatevi in un mondo agli albori dei cellulari e di internet che cosa significasse andare a Londra o a New York. Una manna di cinema, teatri, canali televisivi, negozi di videocassette prima e dvd dopo e, quindi, valige leggerissime all’andata, pesantissime al ritorno, con relativo portafoglio vuoto. Ho studiato architettura per un anno, poi filosofia per qualche altro. C’è stato il divertente (e remunerativo) periodo come sceneggiatore alla Sergio Bonelli Editore, dopo il quale ho ripreso a studiare e mi sono laureata a Bologna con una persona fantastica come Franco LaPolla, prematuramente scomparso. E’ soprattuto grazie a lui che mi sono interessata di studi culturali. Negli ultimi anni lavoro con Gargoyle Books anche in veste di editore.
F.: Mah, cosa posso dire? Sono nato nel ’62, quindi in una certa stagione culturale (piena età Hammer, se vogliamo). Sono sposato e ho due figli tra medie inferiori e ginnasio. La mia giornata-tipo è in ufficio, come redattore di casa editrice su opere giuridiche – ma al ritorno a casa ricomincio sull’altro versante, di libero ricercatore. In effetti sul Fantastico c’è moltissimo da indagare, da studiare, al di là dei repertori di informazioni che già rimbalzano tra appassionati. Ma penso anche allo scavo nella nostra grammatica interiore, nella galleria dei nostri miti. E la ricerca va condivisa – anche per il piacere di rendere partecipi gli altri di qualcosa di bello. Ecco, mi sembra almeno l’avvio di una carta di identità…
Poco prima di Natale è uscito nelle librerie il vostro nuovo saggio Peter & Chris – I Dioscuri della Notte dedicato a Peter Cushing e Christopher Lee. Da dove è nata l’idea?
A.: Con Franco avevamo una pletora di idee, ne abbiamo discusso con Paolo De Crescenzo – nostro editor nonché editore (e, in quanto tale, mio socio) – ed è venuta fuori questa nuova opzione. Svolte un paio di ricerche preliminari, ci siamo convinti di avere un bel po’ di belle storie da raccontare se ci fossimo occupati di due personaggi così importanti nella loro professione e così interessanti con le loro personalità.
Come mai lo avete scritto a quattro mani?
A.: E’ stato in virtù dell’esperienza precedente con The Dark Screen. In quell’occasione ci siamo incontrati per la prima volta – sempre con Paolo a fare da… “sensale” – , abbiamo lavorato insieme (sgobbato come muli sarebbe il caso di dire…), ci siamo trovati bene e siamo stati contenti del risultato. Il libro è stato apprezzato e, quindi, abbiamo ritenuto di poter ripetere l’esperienza.
Come vi siete divisi il lavoro di scrittura del libro?
F.: Siamo partiti ciascuno da un volume di autobiografia, Angelica col primo di Cushing e io con quello di Lee – un’assegnazione, in realtà, abbastanza casuale – e abbiamo iniziato ad abbozzare l’avvio delle due storie; poi ci siamo scambiati i libri, in modo da entrare entrambi a contatto con l’uomo dietro la maschera. Nel frattempo vedevamo i film, prendendo appunti. Lo scambio di file in formato revisione ha permesso di integrare il tutto. Ma in realtà ci sono vari passaggi, con un procedimento diciamo “a cipolla”, per inserire via via elementi da testi di critica, sviluppare in dialogo spunti reciproci eccetera. Non condividiamo sempre i giudizi, quindi si tratta di trovare un equilibrio tra le posizioni. Il risultato sono file tormentatissimi… E non è raro che anche Paolo De Crescenzo, quando li mandiamo, aggiunga qualche nota da appassionato o qualche ricordo personale.
Quanto sono stati importanti Cushing e Lee nella vostra formazione cinematografica?
A.: Nella mia confesso relativamente poca. Sino ad alcuni anni fa ovvero sino a quando ho cominciato a occuparmi di horror, Lee per me era Dracula, ma anche il cattivo del primo 007 che ho visto al cinema, L’uomo dalla pistola d’oro; mentre Cushing era un attore inglese di gran classe, che aveva fatto anche “il cattivo” in Guere stellari. Lavorare a questo libro mi ha permesso di conoscerli, in particolare nelle loro due grandi e diversissime sensibilità.
F.: Per quel che mi riguarda importantissimi, soprattutto sul piano della grammatica interiore di cui parlavo. Certo, c’è una componente “affettiva”: gli attori assumono spesso per il pubblico un ruolo quasi familiare, sorta di zii acquisiti. Però alcuni rappresentano molto di più, vere e proprie categorie simboliche. A Cushing & Lee, che hanno nutrito i miei sogni, voglio bene – e tanto più dopo averli frequentati così a fondo nelle loro avventure, e nelle confessioni di umanità di memorie e interviste. Ma nello stesso tempo i paradigmi incarnati con le loro interpretazioni rappresentano formidabili macchine per pensare, costellazioni mitiche e simboliche di enorme rilevanza a livello personale e collettivo. I rapporti col potere, col sesso, con la conoscenza… Elementi drammatizzati, anzi celebrati ritualmente nei loro film in una sorta di liturgia laica, e che ancor oggi suggeriscono provocazioni. Abbiamo cercato di render conto di ciò nel libro.
Peter & Chris è il vostro secondo saggio cinematografico dopo The Dark Screen. Quali differenze ci sono tra i due volumi?
A.: Prima di tutto, direi la mole!! Quasi settecento pagine The Dark Screen contro neanche quattrocento di I Dioscuri della notte…. Scherzi a parte: il primo libro si occupava di un personaggio letterario, teatrale e cinematografico dotato di pochissime attinenze con la figura storica.; mentre il secondo si concentra sui profili di due attori e di due persone. Entrambi hanno la caratteristica di raccontare i contesti, i mondi, i costumi, le società e le culture attraversati dal tema portante.
Secondo voi c’è un’altra coppia cinematografica che attualmente possa ricordare il duo Cushing-Lee?
A.: Tendo a dire tra il serio e il faceto – ma più il faceto – che Cushing e Lee sono stati il George Clooney e il Brad Pitt dell’horror. E mi riferisco alla complicità che le due star di oggi hanno mostrato nella trilogia cominciata con Ocean’s Eleven. Nell’ambito del cinema fantastico non mi pare attualmente ci sia nessuna figura così centrale. Men che meno ce ne sono due.
C’è una “ricetta magica” dietro la straordinaria intesa tra i due attori?
F.: Sicuramente c’è alla base, per entrambi, la somma di incredibile professionalità, passione e carisma: penso agli appunti fittamente annotati di Cushing o al suo ruolo talvolta di regista-ombra, ma con consigli sempre rispettosissimi di chi girava; o all’abitudine di Lee di studiare attentamente i testi letterari alla base dei film, prendendo in genere le parti dello scrittore contro le forzature di copione. D’altra parte i Nostri sapevano giocare in coppia con aspetti robustamente complementari – rammentiamo la freddezza dei personaggi di Cushing (in realtà persona sensibilissima, e di umanità strabordante) e per contro il furore trattenuto che sembra emanare da Lee. Il risultato è un’alchimia straordinaria, con risultati pirotecnici nelle scene in cui direttamente interagiscono. Ma a ciò si aggiunge un’intesa umana non comune. I giochi di sguardi, la complicità tra vecchi amici… il piacere di lavorare insieme. Al di là degli aspetti artistici e mitografici, la loro è una storia umanamente bella.
Oltre che la vita e la carriera dei due attori, il vostro saggio ripercorre anche la storia della Hammer Films, una delle più importanti case di produzione cinematografiche. Riassumete in poche righe le sue gesta?
F.: Credo sia difficile non emozionarsi parlando di questa piccola casa in cui produttori, attori e aiuti vari – compresa la signora che faceva i panini – lavoravano in un clima sostanzialmente familiare, eppure sono riusciti a tener testa a Hollywood. Una piccola casa nata negli anni Trenta, rinata dopo la guerra e diventata famosa con quella deliziosa SF britannica – i giorni di Quatermass, per intenderci – cui però subentra una stagione ancora più entusiasmante. Cushing e Lee si conoscono sul set di quel The Curse of Frankenstein (La maschera di Frankenstein), 1957, che vede in pratica rinascere l’horror, e in Dracula (Dracula il vampiro), 1958, possono pienamente giocare il loro rapporto di opposizione polare – e da questi due film si sviluppano cicli paralleli dove in genere compare solo uno dei due (Cushing come barone Frankenstein, Lee come Dracula), ma che segneranno in modo profondissimo l’immaginario. Seguono altri mostri, come il cane fantasma di The Hound of the Baskervilles (La furia dei Baskerville), 1959, varie mummie (la prima è quella interpretata da Lee e fronteggiata da Cushing nel film del ’59), creature mitiche di vario genere come la protagonista di The Gorgon (Lo sguardo che uccide), 1964: lungo tutta la sua storia, la Hammer articola un pantheon – o pandemonium – variegatissimo, con una galleria di mostri certo fortemente legata all’horror ma non esaurita in esso. C’è il poliziesco, il thriller, il film esotico di avventure… e se spesso in scena è l’età vittoriana, in filigrana si intravede il rinnovarsi dell’Inghilterra nei giorni della Swinging London. Con l’avvio degli anni Settanta, la crisi di questo mondo e il riappropriarsi americano dell’horror, si entra nel cosiddetto crepuscolo Hammer – che però produce film di sfrenata fantasia. A parte la trilogia Karnstein dove Cushing ha due ruoli importanti e in un caso si confronta con la carismatica Ingrid Pitt recentemente scomparsa, penso a certi connubi tra vampiri e arti marziali, o col cappa-e-spada. O al pirotecnico dittico di Alan Gibson sul ritorno di Dracula in una Londra follemente pop, Dracula A.D. 1972 (1972: Dracula colpisce ancora) e The Satanic Rites of Dracula (I satanici riti di Dracula), rispettivamente 1972 e 1974, coi nostri due eroi a combattersi ancora come Dracula e Van Helsing (jr.). Nel frattempo è morta l’amatissima moglie di Cushing, segnando una svolta traumatica nella sua vita personale come di lavoro. Ma la Hammer è come certi vampiri suoi protagonisti: morta lentamente allora, sta oggi riemergendo con nuovi film. Ovviamente molto diversi da quelli di una stagione irripetibile.
Trattando un intero periodo storico del cinema, uno dei più “magici”, il vostro è un saggio che si potrebbe definire epico. Cosa si prova a vederlo pubblicato?
A.: Sollievo, perchè se lo abbiamo scritto e pubblicato è perché esiste ancora qualcuno che ha voglia di leggere cose del genere. E anche un pizzico di soddisfazione: si fa leggere (non è pesante o pedante), è ricco di tante notizie preziose, in alcuni momenti è persino divertente.
Peter & Chris è stato pubblicato per la Gargoyle Books. Secondo voi questa casa editrice è ormai diventata un punto riferimento per la narrativa horror made in Italy?
F.: Sicuramente è diventata un fondamentale punto di riferimento per l’horror in Italia, e anche per quello made in Italy. Onore al merito al Direttore editoriale Paolo De Crescenzo che ha osato esporsi con un’etichetta di genere, horror, che altri considerano ancora impresentabile.
A.: Spero che sia un punto di riferimento. Per certo è un punto, nel senso che nessun altro aveva tentato qualcosa di simile prima in Italia e Gargoyle sta affrontando felicemente il suo sesto anno di attività. L’horror è il nostro marchio di fabbrica: quello di grande tradizione – McCammon, Simmons, Yarbro – e quello italiano più recente, con i nomi noti di Gianfranco Manfredi e Danilo Arona e quelli di esordienti come Claudio Vergnani e Andrea G. Colombo.
Come è iniziata la vostra avventura come scrittori? Ricordate quale è stata la prima cosa che avete scritto?
A.: La prima cosa scritta professionalmente ovvero pubblicata a livello nazionale e pagata è stato un articolo di critica cinematografica e vagamente musicale che si occupava di pellicole legate all’opera lirica. E’ trascorso molto tempo da allora… In quanto al primo scritto in assoluto, non ne ho alcuna idea, forse qualcosa per la scuola… Sono sicura che Franco se lo ricorda…
F. (ride): Beh, dipende in che senso. In quarta elementare il mio maestro ci aveva chiesto di immaginare di trovarci a un assedio nel Medioevo: avevo partorito un racconto ferocissimo in cui parecchi miei compagni lasciavano le penne… Alle medie ho poi inviato la mia prima proposta a un editore, una schedatura di maschere italiane. Dalla Mondadori mi hanno anche risposto… ovvio, un no, ma molto gentile.
Non posso che chiudere con la più classica e inflazionata domanda. Avete nuovi progetti in corso?
A.: Idee tante, impegni anche. Credo ci concederemo il classico periodo di riflessione.
F.: Per i progetti, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Comunque non c’è ancora nulla di avviato. Vedremo…
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