Un pessimismo di fondo che fa da filo conduttore in tutta la produzione simenoniana, incentrata sempre e comunque su storie “nere”, quasi brevi discese negli inferi, in cui i protagonisti sono scossi da profonde sofferenze e angosce che in un modo o nell’altro verranno sempre a galla. Sofferenze che spesso sono causate da una vita che non ha dato ciò che ci si aspettava, una vita vissuta in perenne attesa di qualcosa che alla fine mai arriverà, come succede al protagonista de L’uomo che guardava passare i treni (1938), l’olandese in fuga a Parigi Kees Popinga, un uomo che nell’ammirare i treni che sfrecciano lungo la piccola stazione del suo paese riesce a vivere e a immaginare, anche solo per un’ora, una vita diversa dalla sua, fino al punto da trasformarsi del tutto diventando uno spietato criminale. O ancora come succede al capitano Lannec, protagonista di I Pitard (1933) che quando finalmente riesce ad avere la sua tanto agognata nave, vede il suo primo trionfale viaggio trasformarsi in un vero e proprio incubo.
Un dipinto che chiaramente si ispira alle sue vicende personali e familiari fino a tal punto da fare dei suoi romanzi un’autentica valvola di sfogo: il passato incombe come un macigno, esso viene rievocato con cura, “perché esistono attimi della vita di tale pienezza che meritano di essere ricostruiti con cura ossessiva, nei minimi dettagli”, e di conseguenza anche i suoi personaggi, come lui stesso, sono dotati di una capacità di ricreare il passato la cui precisione ha del prodigioso e che in qualche modo ricorda la famosa “memoria involontaria” di Marcel Proust; ma mentre in Proust i ricordi sono ritrovati, in Simenon sono anticipati, nel senso che lo scrittore belga si interessa all’attimo al contrario di Proust che invece si interessa all’attimo sviluppato e quindi al dopo.
André Gide, uno dei più importanti scrittori e critici francesi del ‘900, definì Simenon “il più grande scrittore francese vivente” e sui suoi romanzi scrisse che “Le trame di Simenon sono spesso di un interesse psicologico ed etico profondo; ma indicato insufficientemente, come se lui stesso non si rendesse conto della loro importanza”. Un giudizio schietto e chiaro, dove però a un’attenta analisi si racchiude proprio l’essenza dell’intera produzione simenoniana. Georges Simenon, infatti, conosceva bene l’importanza psicologica ed etica delle sue storie, ma preferiva lasciare ampia libertà al lettore, riteneva inutile soffermarsi troppo a lungo nello spiegare una situazione, nello srotolare una vicenda, limitandosi (si fa per dire) a munire il lettore di quegli strumenti che gli avrebbero permesso di farsi un quadro preciso e completo della vicenda narrata.
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