È stato un mito per tante generazioni, il gigante buono che ci ha
insegnato che il bene, alla fine, trionfa sempre e che anche nel selvaggio west
si può ridere. Bud Spencer se n’è andato ieri a 86 anni, lasciando un profondo
vuoto nel cuore di chi, come me, lo ha amato fin da quando era bambino e coi
suoi film è cresciuto e diventato migliore.
Per me, forse più per altri, è una grande perdita, avendo avuto la
fortuna di conoscerlo e di passare insieme a lui una giornata indimenticabile
in occasione dell’intervista che mi rilasciò per il mio libro Guida al cinema di Bud Spencer e Terence Hill. Un omone dal sorriso paterno, accanto al quale, io, un metro e
ottanta per cento chili, mi sono sentito piccolo piccolo. L’unico modo per
ricordarlo è quello di regalarvi questa intervista che rappresenta soltanto una
minima parte delle emozioni che ho vissuto quel giorno a Roma, nel suo studio.
Lei
ha sempre dichiarato di non aver mai voluto fare l’attore, perché?
Io non sono mai stato un
attore, io sono un personaggio. L’attore è un individuo che prima di tutto ha
studiato e che ha fatto l’accademia e io non ho fatto nessuna di queste cose. Non
ho mai voluto fare l’attore e alla fine l’ho fatto soltanto perché qualcuno
lassù ha voluto che lo facessi, limitandomi a creare un personaggio. L’unica
mia unicità è che forse il mio personaggio non lo può fare nessuno meglio di
me.
Sono
passati quasi 40 anni dal primo film girato in coppia con Terence Hill, che
ricordo ha di quell’incontro?
Un ricordo abbastanza comico
e divertente, in quanto non doveva fare Terence Hill il film con me, ma Peter
Martell. Quest’ultimo si è rotto un piede e così fortunatamente è stato scelto
lui. Siamo ancora amici come sempre, non abbiamo mai litigato. L’unica
differenza è che lui è un attore e io no.
Lei
crede al destino, vista l’assoluta casualità del vostro primo incontro sul set?
Assolutamente sì, la mia vita
ne è un esempio. Io avrei dovuto fare soltanto un film, Dio perdona… io no!, anche se ho sposato la figlia del più grande
produttore cinematografico italiano. Io non ho mai fatto cinema, perché lui non
me l’ha mai chiesto e io non l’ho mai voluto. Dovevo diventare un buon chimico
e invece sono diventato quello che sono diventato.
Durante
le riprese di Dio perdona… io no! lei
ha mai avuto sentore che la coppia Spencer-Hill potesse poi avere così tanto
successo di pubblico?
Non abbiamo capito subito
quella che era la coppia, infatti in Dio
perdona…io no! è qualcosa che è nato con Terence Hill come protagonista,
perché era difficile capire che uno con la pancia come me, di 120 chili,
potesse fare l’attore principale. Ma poi evidentemente l’hanno capito ed adesso
eccoci qua. La coppia vera è nata con I
quattro dell’Ave Maria e poi con Trinità
è esplosa definitivamente.
Qual
è stata la sua reazione nel momento in cui le hanno prospettato la
partecipazione in Dio perdona… io no!?
Essenzialmente di felicità e
di assoluta sorpresa, perché quando chiamarono mia moglie chiedendole se ero
sempre grosso, prospettandomi la partecipazione al film, io chiesi come
compenso il pagamento di due cambiali da un milione ciascuna in scadenza.
All’inizio Colizzi mi disse di non potermi dare più di un milione, perché non
avevo fatto niente prima di allora, ma alla fine, non trovando nessuno che mi
sostituisse, mi richiamò e mi diede i due milioni. Tutto il film fu pagato 90
milioni, il regista si è perfino impegnato alcuni gioielli, e uscì in un solo
cinema, al Colosseo di Bologna, riscuotendo un successo davvero incredibile.
Folla, file davanti al cinema…
Com’è
nata l’idea di trasformare in burla un genere fino allora serio e spesso anche
violento come il western?
È venuta man mano che
andavamo avanti. In principio, Lo
chiamavano Trinità… era un copione fatto per un solo protagonista ed era
stato già scartato da una decina di produttori. Allora io chiesi a Italo
Zingarelli di aggiungere un altro personaggio principale, di fare due fratelli,
e così è nata la leggenda, anche se in realtà noi non abbiamo fatto altro che
copiare da Stan Laurel e Oliver Hardy, da Buster Keaton e Charlot che facevano
ridere per quello che succedeva e non per quello che dicevano. Una comicità per
lo più gestuale che nel western comico ha trovato la giusta espressione.
Nella
vita lei si sente ancora un po’ “Bambino”?
Il rapporto che c’ho è il
ciuccio che mi porto sempre dietro, anche alla mia età.
Qual
è, secondo lei, la chiave del successo dei vostri film?
Sono piaciuti in tutto il
mondo, a differenza, per esempio, di tanti altri grandissimi comici, sia
italiani che americani, che spesso fanno ridere soltanto nella zona dove sono
nati. Per esempio Totò, Franchi e Ingrassia che non riuscivano a superare i
confini nazionali, perché all’estero non capivano quello che dicevano. La
stessa cosa è successa qui con Bob Hope che, doppiato, non ha mai reso per
quello che realmente è stato. Noi abbiamo soltanto dato quello che il pubblico
si aspettava da noi.
Da
dove nasce, nel dittico di Trinità,
la centralità del cibo, spesso vera e propria causa scatenante di irresistibili
gag comiche?
Semplicemente dal fatto che
nessuno di noi potrebbe mai vivere senza mangiare. Penso che questo sia stato
il primo gesto comico che abbiamo inventato come gestualità.
Quanto
spazio c’era per l’improvvisazione nei film girati in coppia con Terence Hill?
Era essenziale, perfino senza
averla studiato prima, piano piano è andata aumentando, prendendo sempre più
piede e qualche volta ha causato anche alcuni problemi con Terence Hill che era
molto più preciso e rigoroso di me.
Com’era
il rapporto con Terence Hill durante e dopo le riprese dei vostri film?
Sempre ottimo, ci siamo
divertiti parecchio. L’unica differenza era che lui teneva al copione, a
rispettare i dialoghi e tutto, mentre io spesso andavo a braccio, amavo
improvvisare più di lui. Nonostante tutto, eravamo e siamo una coppia
solidissima: solitamente le coppie tendono a litigare (vedi quanto successo tra
Boldi e De Sica), mentre noi siamo sempre andati d’amore e d’accordo, nonostante
i caratteri quasi antitetici.
Qual
è il film che ricorda con maggior piacere di quelli girati con Terence Hill? E
perché?
Quello che mi piace di più è I quattro dell’Ave Maria, ma sono legato
un po’ a tutti, perché sono nati in un certo modo. I primi sono stati molto ben
fatti, perché diretti da uno dei più grandi registi che abbiamo avuto, Giuseppe
Colizzi che, nonostante non avesse ancora capito la coppia, ci presentò al
pubblico nella maniera giusta, diversa dagli spaghetti western in voga in
quegli anni. Io dico sempre che non ho fatto spaghetti western, ma western
comici.
Lei
ha girato anche a fianco di Lee Van Cliff in Al di là dell’odio e di Eli Wallach in I quattro dell’Ave Maria. Che ricordo ha dei due attori?
Lee Van Cliff è stato l’unico
attore con cui ho litigato, era un grandissimo, uno dei più grandi personaggi
western americani, però arrivava sempre in ritardo sul set e quando si
presentava era ubriaco. Allora, un giorno gli andai a un millimetro dalla
faccia e gli dissi: «O domani vieni alle otto o quando tu arrivi alle due, io
me ne vado» e lui da allora arrivò sempre in perfetto orario. Questo, perché
per me non ci sono né primi attori né star, è un lavoro ben pagato e tutti
dobbiamo avere rispetto dei colleghi. Riguardo Eli, invece, ricordo che ogni
mattina si svegliava alle cinque, veniva da me e cominciava a parlare dicendomi
di non camminare in un certo modo, di non muovere le mani, di non parlare in un
altro modo, di fare attenzione alla macchina da presa, perché il mio faccione
sullo schermo diventava gigante e così via, fino a quando non gli chiesi perché
mi dicesse tutti i giorni quelle cose e lui mi rispose: «Io non lo faccio per
te, lo faccio per me, perché se tu reciti male siamo due cani che recitano». Ed
era la verità!
Personalmente
vedo la coppia strutturata così: Hill sicuramente sul versante Charlie Chaplin,
un agile ottimista che cerca fin che può di piegare il mondo ai suoi desideri;
mentre lei nettamente sul versante Buster Keaton, impassibile qualunque cosa
gli accada e che vorrebbe soltanto essere lasciato in pace (cosa che non accada
quasi mai). Si riconosce in questa differenziazione?
Sarebbe stupido dire “mi
sento vicino a”, io ho semplicemente copiato quello che loro hanno fatto,
creando un personaggio che ancora mancava in Italia. La chiave è molto
semplice: fa esattamente quello che il pubblico si aspetta, una sorta di
giustiziere manesco contro le ingiustizie.
Secondo
lei, perché il vostro ultimo film in coppia, Botte di Natale, non ha avuto lo stesso successo dei precedenti?
Personalmente, quando ho letto
il copione ho detto subito: «Questo è un film da azione cattolica», perché
quando metti a un personaggio come il mio otto o dieci figli, ci costringi a
uscire dalla coppia. Noi siamo sempre due truffatori fetenti, che cercano di
fare qualche colpo, ma che poi finiscono per cacciarsi nei guai, trasformandosi
in difensori dei più deboli, invece in Botte
di Natale tutto era molto più familiare e non succede niente.
Perché
non è stato mai più scritto un nuovo film per la coppia?
Semplicemente perché non ne
vale la pena. Perché scrivere un nuovo film spendendo soldi quando a ogni
passaggio televisivo sono milioni di telespettatori?
Lei
ha recitato in coppia sia con Terence Hill che con Giuliano Gemma. Che
differenza ha trovato tra i due?
Gemma, come Hill, è un
attore, anche se sono due caratteri molto diversi. Giuliano, per esempio, ha
recitato anche in film importanti e, in un certo senso, impegnati con Comencini
o Squitieri. Sono simili come ruoli, ma molto differenti come caratteri.
Comunque, sono stato bene con tutti e due.
Lei
ha recitato per Ermanno Olmi in Cantando
dietro i paraventi. Cosa le ha lasciato questa esperienza?
Ermanno Olmi è un genio del
cinema, uno degli ultimi esistenti, perché tra le altre cose è riuscito a farmi
fare l’attore, togliendomi tutto quello che il pubblico voleva da me, e la
critica è stata favorevolissima, una cosa inaspettata.
Desidererebbe
ancora una volta recitare a fianco di Terence Hill?
Non è detto che non lo facciamo,
io sto anche scrivendo una cosa per tutti e due: una versione comica del Dottor
Jeckyll e Mister Hyde. E poi ho in mente anche un film dedicato alla guerra
vista dalle cucine in cui interpresto un cuoco che prepara il cibo alle truppe
ambientato in Giappone. Non escludo che anche lui possa avere un ruolo.
In
passato si è anche parlato di un progetto che vi vedrebbe di nuovo insieme nei
panni di Don Chichotte e Sancho Panza, può aggiornarci in proposito?
Sarebbe stata una cosa
esilarante, ma purtroppo non sarà possibile, perché all’estero non si
venderebbe nemmeno una copia, specialmente nei Paesi di lingua spagnola. Ciò
soprattutto perché il Don Chichotte non è una cosa che puoi prendere in giro e
quindi una nostra versione comica non avrebbe nessun ritorno. E poi, comunque,
Terence Hill non lo avrebbe fatto.
Anni
fa ha deciso di tentare la via della politica candidandosi per Forza Italia,
per quale motivo?
Perché mi è stato chiesto
personalmente da Silvio Berlusconi, col quale sono legato da un bel rapporto di
amicizia nata da una ventina di film fatti insieme. All’inizio ero un po’
perplesso, perché non avevo idea di che cosa mi aspettasse, ma in definitiva è
stata un’esperienza che mi ha lasciato un bel ricordo, soprattutto per il
numero di voti presi nonostante una campagna elettorale quasi nulla. E ancora
oggi molti partiti, di entrambi gli schieramenti, vorrebbero avermi.
Lei
ha fatto anche tanta televisione, che differenza ha trovato tra il piccolo e il
grande schermo?
La televisione ti dà più
popolarità, perché la vedono milioni di persone, mentre nel cinema sono
migliaia, milioni mai. L’importante per me è che non cambi la tua vita, perché
se ti credi qualcuno sei finito. Quando nessuno verrà più a chiederti un
autografo vorrà dire che sei finito.
Cosa
pensa del successo?
Credo sia una cosa molto
labile. Per esempio, nel mio caso, il successo nello sport è qualcosa di mio,
nessuno me lo può togliere, mentre quello cinematografico da un momento
all’altro può crollare. Decide il pubblico, può osannarti per tutta la vita o
togliertelo dopo un anno o dopo un solo film. La cosa davvero importante che
noi abbiamo fatto è non aver mai tradito il pubblico, avergli dato sempre e
comunque quello che voleva. Quando ho fatto Charleston
a Londra, con tanti grandi attori, nonostante il grande successo, il pubblico
non ha gradito la trasformazione del mio personaggio, perché loro vogliono
sempre capire prima di me quello che farò, e invece in quell’occasione ciò non
era possibile, ero un personaggio troppo intelligente!
Se
nella vita avesse potuto scegliere il lavoro da fare, cosa avrebbe scelto?
È la vita che sceglie te, non
sei tu a scegliere la vita. Programmi a breve termine sì, a lungo termine mai.
Se non avessi fatto l’attore, penso che sarei diventato chimico.
(Intervista tratta dal libro Guida al cinema di Bud Spencer e Terence Hill)
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