«I
veri scrittori abbattono le barriere», disse una volta Stephen King durante
un’intervista rilasciata alla rivista “Rolling Stones” e, alla luce di ciò,
forse non è un caso che dopo il thriller Mr.
Mercedes, il nostro amato Re sia tornato in libreria con Revival, uno di quei genere di romanzi
che ne hanno decretato fortuna e successo. Capace di muoversi a
trecentosessanta gradi tra horror, fantascienza, dramma, thriller è ormai
limitativo racchiudere King in un preciso genere letterario: lui è e sarà una delle
penne migliori del ventunesimo secolo.
Come
tutti i suoi appassionati, o adepti come li chiama qualcuno, ben sanno, uno dei
punti di forza di King è sempre stato raccontare non semplici storie ma
autentici periodi storici: c’è riuscito benissimo con IT, con il racconto Il corpo
(contenuto nell’antologia Stand by me)
o con il romanzo Il miglio verde e
ora torna a fare centro con Revival,
una storia lunga sessant’anni e raccontata attraverso gli occhi di un bambino,
il piccolo Jamie Morton. Jamie è un ragazzino come tanti ne abbiamo letti nei
romanzi di King, uno di quelli il cui destino viene sconvolto all’improvviso,
in un giorno come tanti, grazie (o a causa) all’incontro con un giovanissimo
reverendo metodista, Charles Jacobs, appassionato non solo di religione ma
anche, e soprattutto, di elettricità.
Leggendo
Revival si riabbraccia il King
vecchio stile, cattivo quanto basta (forse un pizzico di più), ma sempre
disposto a lasciare una porticina aperta alla speranza, una porta che, nel caso
specifico, si trasforma in qualcosa di molto più simbolico e importante,
nell’unico ostacolo che separa la vita dalla morte, nell’unica ancora di
salvataggio che permette all’uomo di credere che dopo la morte ci sia qualcosa
(di bello) ad attenderlo.
Già
dal titolo si evince come Revival sia
un romanzo cupo, fatto di immagini potenti e di location memorabili, tra province sonnolente, strade assolate e
polverose, tendoni, spettacoli di imbonitori, concerti rock, divertenti
autocitazioni e boschi e angoli nascosti dove il mondo si muove tra (possibili)
realtà parallele. Risucchiati fin dalle prime pagine da questo universo, King
ci guida fin nei meandri più tormentati della psiche umana: da un lato ci
racconta la storia di un bambino diventato un adulto drogato e alcolizzato,
dall’altro l’escalation folle di un uomo di Dio distrutto dalla perdita della
famiglia, incapace di accettare il suo destino e ossessionato dal trovare una
risposta a tutto questo Male. Il Re scrive spargendo indizi in ogni pagina, utilizza
il metodo delle scatole cinesi, sfidando quasi il lettore a capire le sue
intenzioni. Si diverte a costruire un fragilissimo castello di carte da far
crollare nell’incredibile finale apocalittico.
Leggere
Revival è un’esperienza più che una
semplice lettura, da cui si potrà imparare molto sul modo di scrivere di King,
poiché le ispirazioni e i riferimenti sono molteplici: si va dal Frankenstein di Mary Shelley alla
produzione di H.P. Lovecraft, passando per Arthur Machen, Bram Stoker, Ray
Bradbury e William W. Jacobs, le basi da cui lui stesso è probabilmente partito.
Ciò che King aggiunge a tutto ciò è la sua consueta e lucida analisi dei temi
affrontati: in Revival è forte la
condanna ai presunti “inganni” della religione, perché «[…] la religione è l’equivalente teologico di un’assicurazione
da quattro soldi, dove versi le rate anno dopo anno, e quando ti servono i
proventi per i quali ti sei sacrificato così religiosamente (perdonatemi il gioco
di parole), scopri che la compagnia non esiste e sei stato truffato. […]» Non
è, però, soltanto la religione che inganna l’uomo, ma anche l’uomo che inganna
se stesso, nella vana illusione che la scienza possa permettergli di capire
cose che vanno al di là delle sue stesse capacità razionali.
Un King se stesso fino alla fine, un romanzo che con un
piccolo sforzo potrebbe essere considerato tra i migliori cinque del Re, un
libro in cui ogni appassionato (o adepto) potrà ritrovare vecchi e cari
ricordi.
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